Una riflessione sul coraggio di esplorare e sul senso dell’autonomia
C’era una volta un piccolo regno in cui le giornate scorrevano tranquille, nelle case succedevano, prima o poi, sempre le stesse cose: qualche volta erano cose positive e si rideva, altre volte erano negative e si piangeva.
Tra le cose più belle era quando nasceva un bambino, evento per il quale si facevano feste e, come quando nacque Lorenza, venivano conferiti numerosi doni: il primo fu l’amore del re e della regina, il secondo fu il suo nome, il terzo fu il libro della vita, così com’era stato tramandato nella sua famiglia di generazione in generazione. La principessina Lorenza, raggiunto il primo anno di età, cominciò a staccarsi da mamma e papà ed a esplorare la loggia così che la regina pensò ch’ella non aveva più bisogno di rimanere attaccata e tornò ad occuparsi di tutte le faccende del regno.
Dopo tre o quattro anni Lorenza tornò, tuttavia, ad aver paura di ogni cosa nuova, proprio come successe verso i 6 o 7 mesi di vita e tornò ad attaccarsi alla regina la quale, però, continuava a dedicarsi agli affari del regno costringendo la principessina ad imparare da sola, anche se quest’ultima avrebbe preferito staccarsi a poco a poco, facendo via via piccole esperienze di autonomia.
Fu così che Lorenza avrebbe pensato che le fosse mancato qualcosa e quando fu tempo di diventare principessa di un altro regno nonché madre di una bambina di nome Edera pensò bene di non staccarsi mai dalla figlia, non l’avrebbe mai lasciata sola ad esplorare.
A poco a poco la giovane principessina, sempre trattenuta dalla madre, perse la volontà di esplorare la reggia e siccome le cose che non si conoscono ci fanno timore, Edera crebbe con moltissime paure poiché da sola, senza la sua mamma, non sapeva fare niente. Fu così che anche lei crebbe pensando che le fosse mancato qualcosa e quando passarono molte stagioni e la giovane principessina divenne regina di un altro piccolo regno, si portò con sé il libro della vita che le era stato donato e ne leggeva, spesso, qualche pagina; quando arrivò alla storia della sua madre e della sua nonna saltò fuori la loro insoddisfazione: la sua nonna non riusciva ad allontanarsi troppo dalle cose per timore di doversene staccare mentre sua madre se ne affezionava così tanto da non riuscire più a staccarsene. Regina Edera decise così che la cosa importante da aggiungere ai doni per la nascita di un nuovo principino poteva essere il libro dell’ascolto, per capire cosa gli servisse davvero, quale fosse i bisogni del momento che non sempre coincidono con i tempi che i grandi hanno nella mente. In ogni caso anche a lei nacque una bambina e vedendola crescere capì che anche lei aveva bisogno di tempo per ogni cosa, il tempo di rimanere attaccati alla mamma ed il tempo di staccarsene per esplorare e poi di nuovo il tempo di tornare dalla madre prima di trovare il coraggio di esplorare un po’ più lontano. Da allora nell’elenco dei doni da fare ad un principino nel momento della nascita fu inserito anche il libro dell’ascolto, così che lui si potesse sentire meno insoddisfatto e più sicuro nell’esplorare il mondo, un dono che una volta ricevuto resta fare compagnia per tutta la vita e nessuno lo può portare via.
Discussione:
RVS (conduttore Radio Voce Speranza): una riflessione sul coraggio di esplorare, sul senso dell’autonomia e anche sugli sbagli che ci si porta dietro generazione su generazione, passando da un eccesso all’altro.
GT (Dott. Giuseppe Tomai): in passato l’autonomia precoce era percepita dal figlio o dalla figlia come una mancanza d’amore, la persona rimaneva ferita da questo eccesso di autonomia, di distanza, lontananza.
RVS: era un elemento culturale o un problema legato alla società?
GT: le cose si intrecciano, oggi che anche le donne sono inserite nel mercato del lavoro e si crea più facilmente la possibilità che anche i figli si inseriscano in dinamiche di maggiore autonomia, un po’ per necessità, un po’ per la cultura dominante.
RVS: nel caso della seconda principessa abbiamo come un senso di paura che poi si riversa nella sua bambina.
GT: sì, questo poiché sentendo la lontananza della propria madre come ferita, la principessa si è detta “io non farò mai come mia madre” e quindi si va nella polarità opposta, situazione che capita di frequente e spesso anche coscientemente, quindi esiste una buona fede nel non voler rifare gli errori dei genitori ma si aggiunge una radicalità nel senso opposto. Perciò non c’è ascolto, c’è una forza che va in direzione di un’altra forza a prescindere dalla realtà
MEC (Maria Elena Cicali): esiste anche una componente in cui genitori attribuiscono al figlio esperienze della loro infanzia ed in questo modo non vediamo i reali bisogni suo, ostacolandolo.
GT: un classico dell’iperprotezione è l’ansia, direttamente responsabile dell’insicurezza del figlio.
RVS: l’ansia non fa parte proprio del rapporto tra genitori e figli?
GT: in una certa dose credo sia assolutamente inevitabile e naturale, è eccessivo quando blocca, quando diventa una paura costante che manda al figlio il messaggio “io non mi fido di te”.
MEC: nel caso della scelta di comprare il motorino al ragazzo, per esempio, dopo aver valutato che il giovane ha le giuste risorse per poter guidare il mezzo, non si deve eccedere nell’ansia dopo l’acquisto, perché allora si dà il messaggio opposto cioè quello per cui non ci si fida più delle sue risorse. L’atteggiamento protettivo si manifesta anche molto prima, il difficile equilibrio tra vicino e lontano è proprio della classica fase del bambino in cui comincia a camminare, tra il primo e secondo anno il bambino si allontana sempre di più, sulle sue gambe, e questa è una fase vissuta dalle mamme con molta ansia ed insieme con contentezza. Ogni madre reagisce, comunque, in modo diverso ma il bambino pur camminando non è pronto, oscilla fra l’andare e tornare per riprendere la sicurezza di cui ha bisogno per ripartire all’esplorazione.
GT: questo è proprio il movimento della vita.
RVS: oltretutto, immagino che le cose si complichino poiché queste fasi d’allontanamento e di ritorno siano diverse da bambino a bambino.
GT: esattamente, proprio per questo dovremmo avere aperto “il libro dell’ascolto”, in pratica occorre sintonizzarsi con l’altro, vedere ciò che sta vivendo il bambino e pur non aderendo sempre alla sua posizione occorre impegnarsi ad ascoltarlo.
RVS: non c’è il rischio di travisare ciò che viene dal bambino, magari proiettandogli delle esperienze che vengono dal nostro passato, la nostra infanzia?
MEC: questo rischio che si diceva prima, capita a tutti, d’altronde la griglia interpretativa è inevitabilmente la nostra; bisogna chiedersi sempre se questa cosa è un bisogno proprio o del bambino, farsi domande è fondamentale, bisogna chiedersi cosa gli serve davvero, qual è il suo bisogno del momento. Questo libro dell’ascolto ci insegna che c’è tempo per ogni cosa: il tempo per stare vicino e quello per allontanarsi, non si deve ragionare in base alle idee schematiche per cui se il bambino è partito si pensa che egli non voglia più ritornare, autonomia è equilibrio tra andare e venire.
GT: spesso i bambini adottati hanno un’estrema autonomia, perché sono dovuti sopravvivere in un mondo difficile, quindi sono precocissimo ma, quando si inseriscono nelle famiglie, attraverso un percorso con loro regrediscono a bambini piccoli come se volessero recuperare quella dipendenza, quella sicurezza che gli è mancata.
RVS: nel libro dell’ascolto, c’è anche lo spazio per comprendere i nostri genitori?
MEC: certo, probabilmente è modo più adatto per farlo.
RVS: quindi questo è bel regalo che facciamo a noi stessi ed ai nostri figli.