Lo spazio narrativo nell’esperienza dell’allievo/operatore sanitario con il paziente.
L’incontro dell’operatore con la storia del paziente
L’operatore che incontra sul suo percorso professionale un degente, un anziano, un handicappato…incontra un condensato di esistenze animate da caratteristiche differenti, tutte doverosamente da accudire e rispettare.
L’operatore è in uno stato di “potere” – legato al proprio ruolo e alle competenze/conoscenze – rispetto agli ammalati, agli anziani, agli handicappati. Lungi dall’esercitare un potere sadico, il valore dell’offerta del proprio servizio non è sancito solo dalla remunerazione più o meno consona, ma soprattutto dalla autovalutazione e dalla risonanza che ogni piccolo gesto ripetuto e quotidiano determina nel buon andamento generale del proprio lavoro, con i colleghi, con i degenti ospedalieri, con i lungo – ricoverati anziani, con gli assistiti portatori di handicap con le loro famiglie.
L’operatore vive emozioni e sentimenti relativi al contesto nel quale opera ed al vissuto personale riguardo al proprio ruolo professionale.
è necessario che l’operatore sia consapevole dei bisogni e delle esigenze degli utenti al fine di provvedere a rispondere a questi bisogni con comportamenti ed atteggiamenti adeguati; diviene fondamentale la capacità di osservazione e di ascolto così come l’acquisizione di un comportamento empatico, basato sul rispetto dell’altro.
è comunque elemento centrale per un buon rapporto con l’utente la possibilità per l’operatore di non reprimere le emozioni e i sentimenti che vengono suscitati da tale rapporto.
La capacità di non negare le proprie emozioni ma, anzi, di riconoscerle, permette di capire che cosa le ha provocate e rende possibile trovare la strategia personale per utilizzarla al meglio nella vita quotidiana.
Se invece di reprimere le emozioni, o di viverle in termini conflittuali, l’operatore riuscirà a riconoscerle e accettarle, potrà cercare di compiere un processo di integrazione emotiva: potrà cioè, integrare le proprie emozioni con le abilità cognitive elaborando strategie comportamentali più adattive e utilizzando meccanismi di difesa più produttivi.
Cogliere il bisogno dell’allievo di raccontare il proprio vissuto durante il tirocinio e di trovare un setting capace di ascoltarlo e di accogliere le sue parole, le sue emozioni, è stata una svolta importante per i docenti che trattano di emozioni, sentimenti nel rapporto operatore – utente soprattutto in quelle circostanze nelle quali la parte più irrazionale, più emotiva dell’operatore può essere messa a dura prova.
La narrazione intesa soprattutto come spazio aperto dove sono significativi e significanti il narrare sé stesso e l’ascolto dell’altro, è stata lo strumento proposto agli allievi. La prima reazione è stata di paura.
Paura per la difficoltà a mettere nero su bianco storie, emozioni; paura di ricercare e rivivere momenti che hanno colpito anche dolorosamente l’allievo; paura di “esporsi” agli altri attraverso la narrazione del proprio vissuto.
I risultati sono andati ben oltre le premesse: gli allievi hanno brillantemente superato tali paure e prodotto materiale molto interessante.
L’ascolto e una lettura più approfondita in termini emozionali dei loro racconti ha permesso sia agli allievi sia ai docenti, di trarre fuori le emozioni, di cogliere gli aspetti comuni alla professione e al vissuto di ogni operatore, di individuarne le problematiche e i punti “forti” dell’aspetto relazionale e organizzativo delle esperienze di tirocinio e di lavoro con la persona – utente.
Le narrazioni sono state quindi raccolte in un “quaderno” dal titolo “La narrazione dell’esperienza operatore – utente come rivelatore di significato: tracce di riflessione psicologica per l’operatore socio sanitario”, ad uso degli operatori, allievi, docenti. La raccolta si snoda tra richiami teorici sul rapporto operatore – utente, brani tratti dalle narrazioni degli allievi come base e spunto per la riflessione, brani tratti dalla letteratura esemplificativi di situazioni raccontate da scrittori. Il percorso centrato sul rapporto operatore –utente, si muove nelle diverse aree di lavoro/tirocinio dell’operatore sanitario: ospedale, RSA, assistenza domiciliare infermieristica, centri socio riabilitativi per diversamente abili, centri terapeutici per persone con sofferenza mentale. Un capitolo a parte è stato dedicato alle narrazioni sull’evento morte perché forte è apparso il vissuto narrato dagli operatori su tale esperienza.
Lo spazio narrativo ha permesso, in un contenitore di massima accoglienza e ascolto, l’espressione delle emozioni e la loro rielaborazione, creando dei legami con gli altri allievi/operatori i quali, durante la narrazione, potevano riconoscersi, riflettersi in situazioni emotive similari.
La narrazione dell’allievo ha permesso anche di scoprire il doppio ruolo che spesso l’operatore si trova a rivestire: in prima istanza quello dell’ascoltatore laddove l’utente/la famiglia lo accolga come “contenitore” e “ascoltatore” silenzioso e attento dei propri sentimenti, problemi; in seconda battuta, l’operatore diventa egli stesso narratore quando esprime i propri sentimenti permeati dall’elaborazione della narrazione dell’utente/famiglia. Tutto ciò può avvenire in quei contesti lavorativi dove l’ascolto non è lasciato solo al caso o alla buona volontà dell’operatore (e al tempo che ha a disposizione) ma è parte essenziale della relazione assistenziale che si crea con l’utente. I casi più esemplificativi sono i centri socioriabilitativi e l’assistenza domiciliare infermieristica, contesti nei quali se non si instaura una relazione significativa diventa estremamente difficile portare avanti un progetto terapeutico assistenziale.
In particolare, soprattutto per le persone in fase terminale, L’assistenza domiciliare infermieristica assume caratteristiche particolari: l’operatore è “ospite” nella casa della persona assistita, deve avere rispetto della casa e dello spazio dell’utente e non invaderli. Nelle narrazioni è sempre presente quest’aspetto, anche se non esplicitato chiaramente: entrare nella casa altrui ha con sé la sacralità di entrare nella vita intima, quotidiana di un’altra persona al momento sconosciuta, con la quale non esiste ancora una confidenza tale da permettere un rapporto meno formale e, appunto, più confidenziale, familiare.
Nell’assistenza domiciliare è predominante l’ascolto delle storie di vita degli utenti rispetto alla descrizione dei bisogni percepiti: sembra anzi che il bisogno principale da parte dell’utente sia quello di raccontare la propria vita, la situazione, per permettere all’operatore di entrare in contatto con lui, di comprendere su quale terreno si sta muovendo.
La narrazione dell’utente offre all’operatore le chiavi di lettura e di ingresso alle dinamiche familiari, ai sentimenti, alle emozioni dell’utente, offre la possibilità di partecipare alla sua vita, di essere aiutato come vorrebbe, se l’operatore è in grado di ascoltare, di cogliere i messaggi a volte sommersi che l’utente manda nel suo racconto.
In particolare, hanno colpito gli allievi, facendo delle narrazioni che risentivano sempre delle emozioni provate fino al pianto, le situazioni di accompagnamento di un utente alla morte.
Assistere alla morte di una persona fa riemergere lutti personali, fa riaprire ferite che sembravano risarcite ma che sono rimaste lì, in attesa di un evento che le facesse nuovamente sanguinare. Provare di nuovo il proprio dolore impedisce di aiutare il paziente o i suoi familiari perché l’operatore è impegnato a lenire, a controllare il proprio dolore e la visione del bisogno dell’altro è offuscata da questa forte, incontrollabile e prorompente emozione.Uno dei sentimenti che accomuna gli operatori è l’impreparazione, l’inadeguatezza di fronte ad un momento così importante e allo stesso tempo così naturale.
Le esperienze e i sentimenti riportati dagli allievi si diversificano secondo la situazione in cui vengono vissuti, anche se alla base rimane lo “stupore” di essere coinvolti in prima persona in un evento così vitale. Dal breve incontro temporale in un ospedale e a volte dalla età ancora giovane (“è troppo giovane per morire, ha ancora tanto da vivere davanti a sé”) alla conclusione dell’ultimo tratto di vita compiuto insieme dall’operatore e da un anziano.
Nel primo caso pervade il senso di impotenza, di frustrazione e di rabbia per non poter fare niente di fronte ad un evento repentino e inderogabile in una situazione privilegiata come luogo di cura (e non di morte!) dove tutti gli sforzi umani, scientifici e tecnologici sono rivolti al mantenimento in vita della persona, considerando che la morte sopravviene per malattie quasi indicibili, impronunciabili come il tumore, il cancro. Qualche volta, in ospedale, il paziente ha la percezione dell’esaurirsi della vita e dell’approssimarsi della morte, ha un presentimento che talvolta riesce ad esprimere insieme alle sue ultime volontà e a salutare le persone, gli operatori; talvolta è attraverso lo stato d’animo, l’agitazione che manifesta tale sensazione e l’operatore può essere colto da senso di impotenza per non riuscire o a comprenderlo o ad esaudire le sue ultime volontà.
Nel secondo caso l’accompagnamento alla morte ha sembianze più “umane”, nel senso che l’operatore non è colto alla sprovvista, l’età dell’utente (e non quindi solo la patologia laddove presente) è tale da “accettare” la fine della sua vita, la possibilità di stare accanto alla persona nell’ultimo periodo della sua vita permette il lento distacco e commiato da ambedue le parti. L’operatore partecipa alla conclusione della vita della persona anziana, la persona anziana ha modo di ringraziare e ultimare le sue volontà nel rispetto della propria dignità.
Ciò non toglie che l’operatore non provi dolore, anche se è un dolore “contenuto”, “attenuato” dalla vicinanza possibile e dall’assistere giorno dopo giorno al lento decadere ed involversi della vita dell’ospite. Si presenta però talvolta il disagio dell’operatore ad esprimere il proprio dolore anche per una morte annunciata, il senso di colpa per non “aver salutato” l’ospite prima della morte, in ultima analisi per non essere stato presente e vicino “fino alla fine”, per non aver completato la vita con e dell’ospite.
Dalle narrazioni degli allievi, assistere una persona in fase terminale al proprio domicilio ha significato entrare in contatto non solo con il paziente ma anche con la sua vita sociale familiare interiore e intima ; oltrepassare il limite della intimità che ognuno stabilisce verso l’altro ; stabilire in primis un rapporto di fiducia e ad – fidamento alle cure dell’altro che presuppone un passaggio interiore molto forte.L’operatore ha riconosciuto questi risvolti e con la sensibilità e la capacità personale e professionale ha cercato di cogliere qualsiasi sfumatura, qualsiasi messaggio il paziente e la famiglia abbia espresso consciamente ma soprattutto inconsciamente. L’operatore si è ritrovato ad essere un mezzo di comunicazione tra il paziente e i familiari laddove la malattia, i cambiamenti del corpo del congiunto creano ostacoli alla comunicazione stessa impedendo il rapporto che risulta essere fondamentale per gli ultimi giorni di vita del paziente, per non lasciare niente di non detto, non fatto, con i successivi e postumi sensi di colpa, rimorsi in chi “sopravvive”.
Altra situazione non comune ma comunque con una valenza emotiva estremamente forte, è accompagnare/assistere alla morte una persona diversamente abile.
Nonostante esista il luogo comune che la fine della vita di una persona con grave disabilità possa essere vissuta come “liberazione” per la persona e per i congiunti, le testimonianze parlano della sofferenza di chi vive la morte della persona con disabilità e della persona disabile stessa. Essa è comunque portatrice di affetti, emozioni se l’altro riesce ad entrare nel suo mondo, a comunicare alla sua maniera senza tentare di portare il modello di comunicazione della persona “normale” al disabile. Quando l’operatore, il familiare riescono a cogliere questo importante passaggio allora anche la morte della persona diversamente abile è vissuta unicamente come la morte della persona che ha trascorso parte della propria esistenza insieme a noi e come tale degna di rispetto e dignità. Le sensazioni provate, sentite sia dalla persona diversamente abile sia dall’operatore e familiare sono uguali a quelle vissute per qualsiasi processo del morire e evento della morte.La possibilità per gli allievi di esperire un narrare e un ascoltare attento, attivo e partecipato ha consentito a loro e ai docenti una crescita personale e professionale al di fuori dei canoni didattici classici, usando la razionalità per riportare l’emotività in un contenitore capace nel futuro di essere veramente di aiuto ad un utente.
Giuseppe Tomai, psicologo
Alessandro Maltagliati, psicologo
Luciana Coèn, infermiere coordinatore U.O. Formazione Professionale ASL 10 Firenze